In questi giorni si sta parlando molto della sentenza n. 142/2025 della Corte Costituzionale, e sui social sono apparsi titoli trionfali, proclami di “vittorie” e commenti che alimentano l’idea che la cosiddetta “Legge Tajani” sia stata bocciata o sia in procinto di cadere. Nulla di più lontano dalla realtà.
Cerchiamo di fare chiarezza.
Cosa ha detto davvero la Corte Costituzionale?
La sentenza 142/2025 ha dichiarato inammissibili alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate da tribunali italiani contro le norme che regolano la cittadinanza italiana per discendenza (ius sanguinis). In termini tecnici, si è trattato di un giudizio di legittimità in via incidentale, sollevato da tribunali ordinari, chiamati a giudicare sulla cittadinanza di soggetti nati all’estero da discendenti italiani.
La legge 23 maggio 2025, n. 74 – la cosiddetta “Legge Tajani” – rimane quindi pienamente in vigore. Essa ha introdotto criteri più restrittivi per la trasmissione della cittadinanza italiana ai discendenti di italiani nati e residenti all’estero, imponendo limiti generazionali, e prevedendo nuove condizioni, come la residenza effettiva in Italia.
La recente sentenza della Corte Costituzionale non ha quindi modificato questa normativa. Non è una bocciatura, né una vittoria per chi si oppone alla legge. Al contrario, è una conferma implicita che la disciplina sulla cittadinanza è materia soprattutto politica e che ogni modifica deve passare principalmente attraverso il Parlamento.
Perché allora tanto rumore?
Il principio dello ius sanguinis è stato per anni applicato senza particolari limiti. Alcuni interpretano la sentenza come una conferma della sua solidità, ma attenzione: la Corte non ha affermato che lo ius sanguinis debba restare illimitato. Ha piuttosto fatto intendere che è compito del legislatore stabilirne limiti ed estensione, purché ciò avvenga nel rispetto dei principi costituzionali, come quello di ragionevolezza e proporzionalità.
Nelle motivazioni della sentenza, si parla del concetto stesso di "popolo". Spetta quindi al legislatore il diritto – e il dovere – di stabilire chi ne faccia parte. Non è irragionevole, dunque, che lo Stato ponga dei limiti al riconoscimento della cittadinanza.
Vi è poi il principio di proporzionalità: ogni restrizione deve essere giustificata, coerente e non arbitraria. Questo apre un potenziale margine per future valutazioni di legittimità qualora emergano casi concreti di disparità di trattamento o discriminazione.
A nostro avviso, la sentenza rafforza l’idea che il dibattito sulla cittadinanza debba essere affrontato con responsabilità politica, non con campagne ideologiche o proclami di piazza. Tuttavia, i principi che riafferma potranno essere utili nei prossimi mesi: come base per ricorsi mirati, se emergeranno profili di illegittimità o disparità; come argomento nei dibattiti parlamentari, in fase di attuazione o revisione della Legge Tajani; come leva per proporre modifiche normative più aderenti alla realtà delle comunità italiane all’estero.
In definitiva, la sentenza 142/2025 non cambia nulla nell’immediato, ma conferma a nostro modo di vedere le cose che la cittadinanza è una questione politica, non puramente giuridica. Le regole possono – e devono – essere discusse in Parlamento, non combattute a colpi di post senzazionalistici.
Ben vengano comunque eventuali ricorsi e dibattiti sulla nuova Legge Tajani, perché è su di essa – e non sulle norme precedenti, ormai consolidate – che si potranno aprire nuovi margini di valutazione costituzionale.
Chi ha a cuore i diritti degli italiani all’estero farebbe bene a evitare proclami infondati e titoli sensazionalistici, e a concentrarsi su un lavoro serio, costruttivo e responsabile. Perché è proprio nei momenti di confusione che serve più lucidità – soprattutto a livello politico, istituzionale e giornalistico.
Flavio Bellinato
Nessun commento:
Posta un commento