Quante volte abbiamo visto strade, ponti, scuole, ospedali o perfino semplici marciapiedi già completati e perfettamente funzionanti, restare chiusi per giorni, settimane, a volte mesi, solo perché si “aspetta il presidente”, “il ministro è impegnato”, “l’agenda non combacia”? E nel frattempo la gente attende, i benefici vengono rimandati, e tutto resta in stand-by per una questione puramente di immagine.
Ma a chi serve, davvero, questa messa in scena?
Aprire un’opera pubblica quando è pronta dovrebbe essere un atto automatico, quasi banale. Se una strada è finita, che si apra al traffico. Se una scuola è completata, che gli alunni vi entrino. Non servono trombe e tappeti rossi per un diritto che appartiene ai cittadini e non ai politici di turno.
Dietro queste inaugurazioni ritardate c’è un’idea antica: che l’opera pubblica sia un favore concesso dall’alto, un regalo da esibire con il nome del ministro inciso sulla pietra. Ma non è così. Le opere sono pagate con le tasse dei contribuenti. Sono doveri dello Stato, non regali da festeggiare con i flash dei fotografi.
Naturalmente, un’inaugurazione ha un valore simbolico, serve a comunicare il completamento di un progetto. Ma quando il simbolo prende il posto della sostanza, si crea un danno: si perde tempo, si alimenta il culto della personalità, e si distoglie l’attenzione dal vero protagonista, che è il servizio pubblico, non chi lo inaugura.
In un Paese moderno, efficiente e rispettoso dei cittadini, le opere si aprono quando sono pronte. Senza fronzoli, senza attese, senza passerelle. Basta con le inaugurazioni a orologeria.
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