Chi vive nella Repubblica Dominicana da qualche anno, lo sa bene: Haiti non è soltanto un paese vicino. È uno Stato povero, sfortunato, sofferente. È un vicino di casa con la porta sempre mezza rotta, da cui a volte arrivano rumori, urla, oppure silenzi che fanno ancora più paura.
Da mesi, Haiti è piombata in una spirale di violenza fuori controllo. La capitale, Port-au-Prince, è nelle mani delle bande armate. Le strade sono terra di nessuno, lo Stato è scomparso, la gente scappa dove può. Chi può fugge. Chi non può, si nasconde.
Intanto, da questa parte della frontiera, ci chiediamo: dobbiamo preoccuparci?
Un confine fragile
La frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana non è un muro invalicabile. È una linea sottile, fatta di colline, sentieri, mercati di confine e relazioni complesse. È sempre stata un confine poroso, dove si passa, si commercia, si lavora.
E mentre il governo dominicano rafforza la sicurezza, costruisce muri, schiera soldati e moltiplica i controlli, il timore cresce anche tra la gente comune. Cosa succederà se le bande armate cominciano a infiltrarsi anche qui? Cosa succederà se la violenza non si ferma alla dogana?
Chi vive nelle province di confine lo sente sulla pelle: c’è tensione. Gli haitiani che arrivano – molti dei quali donne, bambini, famiglie – spesso vengono respinti, oppure vivono nascosti, per paura delle retate, dei controlli, delle deportazioni.
I dominicani, da parte loro, sono divisi: c’è chi mostra solidarietà, chi offre aiuto, ma c’è anche chi si sente invaso, chi chiede ordine e sicurezza.
Il rischio, in tutto questo, è trasformare una crisi umanitaria in un conflitto sociale. La frontiera non è solo geografica: è anche culturale, politica, emotiva.
E noi stranieri?
Chi, come noi italiani o europei residenti, vive qui da anni, forse non siamo direttamente toccati dalle tensioni al confine, ma lo siamo indirettamente: nei prezzi che salgono, nella presenza militare che aumenta, nel clima di diffidenza che si respira.
La Repubblica Dominicana ha il diritto – e il dovere – di proteggersi. Ma non deve cadere nella trappola della paura e del rifiuto totale.
Chi fugge da Haiti non è un nemico. È una vittima.
Noi che viviamo qui da anni, che abbiamo scelto questa terra come casa, che abbiamo imparato a capirla e ad amarla, possiamo provare a essere una voce equilibrata. Né buonisti, né xenofobi. Solo realisti con il cuore acceso.
Haiti non sparirà. Non è lontana. È dall’altra parte del fiume, della strada, del muro. E se un giorno ci sarà davvero bisogno… meglio avere un ponte, che solo un cancello chiuso.
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